Di Marilù Mastrogiovanni
Il Salento brucia.
Brucia la storia, bruciano le lotte contadine per terre che ora valgono meno di niente. Meno di niente vale la terra, chi la lavora e chi l’ha conquistata, strappandola ai padroni latifondisti.
Quanti di noi ricordano che il latifondo, luogo di sfruttamento e schiavitù, fu abolito e smembrato con la Riforma agraria del 1950? Le terre, furono assegnate ai contadini. Un territorio vastissimo, la Terra d’Arneo, la zona nord della provincia di Lecce, terra mara, arsa e pietrosa, fu invece dimenticata e i contadini dovettero conquistarla con la lotta, a tutti i costi, anche a costo della vita (su questo potete leggere il mio libro Sangue di quella terra. Storie d’eroi d’Arneo, coeditato da Lupo editore e Il Tacco d’Italia, 2007).
Le terre degli ultimi grandi latifondisti furono affidate ai “coloni”: lavoro sfiancante, ma sempre meglio che lavorare “a giornata”, per salari da fame, come quelli che oggi ricevono i migranti dai caporali. L’intero Salento da allora divenne un mosaico verde, un giardino dove nessun angolo era dimenticato dalla mano delle donne e degli uomini, capaci di far fiorire le rocce.
Tutti i coloni riscattarono quei fazzoletti di terra, dopo una vita passata a spolverare, piegati in due, anche le pietre, una sull’altra, delimitando la proprietà.
Una pepita d’oro, per loro, da passare ai figli; un peso fastidioso, per i nipoti, che preferirono la fabbrica e lo stipendio a fine mese. Quelle terre, che davvero brillavano e lussureggiavano tutto l’anno, davano da mangiare a chiunque e il più povero dei figli di quella terra aveva di che nutrirsi, anche solo raccogliendo verdure, frutti e legumi selvatici, tanto la terra era generosa e fertile. Sfacciatamente l’aria profumava di fragranze diverse, a seconda della stagione e a seconda che il sole fosse alto o basso sullo Zenith.
In 70 anni, dagli anni Cinquanta ad oggi, l’ecosistema del Salento è piombato nell’inferno. Nessun profumo nell’aria, ma l’odore dolciastro degli ulivi secolari bruciati e dei rifiuti plastici, “che giacché” bruciamo pure quelli.
Oltre 400 chiamate ai Vigili del fuoco nel mese di maggio. L’organico è sotto dimensionato e non è una novità: l’allarme dei Vigili del fuoco arriva puntuale ogni anno. Chi ha vissuto tutta la parabola, la generazione della Seconda guerra mondiale, chi è ancora vivo, ricorda che l’estate il Salento brucia. È un assioma: è sempre stato così.
Ma non così, come oggi.
Il Salento bruciava, sì, ma il terreno era arato, gli ulivi verdi, le campagne abitate. Di più: le campagne presidiate.
Oggi gli uliveti secchi e le campagne abbandonate sono il frutto di quelle scelte, prima di tutto politiche, fatte negli anni Sessanta e Settanta: quando si preferì la fabbrica alla campagna, finanziando investimenti massicci che cambiarono il panorama, l’ambiente, gli equilibri socio-economici. I grandi insediamenti industriali furono progettati da uno Stato colonizzatore, completamente scollegati dal territorio, dove venivano calati dall’alto e per esigenze che non rispondevano a quelle profonde della comunità, ma solo a quella epidermica e immediata di creare posti di lavoro, che significava quintuplicarli in termini di consenso elettorale. Le fabbriche crearono operai, ma non una “classe operaria”
Al contrario, una “classe contadina” esisteva eccome; aggregata attorno alle Camere del lavoro prima, ai sindacati poi.
Operai e operaie, soprattutto donne (il settore tac, tessile abbigliamento e calzature era ed è basato sulla manodopera femminile), senza una coscienza di classe, senza sindacati, senza cultura dei propri diritti, senza alcuna coscienza politica di cittadine e cittadini (su questo si legga il bel libro di Mario Toma, già deputato PCI: Dalla Fabbrica alla crisi, editore Cominickare, 2014).
L’approccio da colonizzatore era lo stesso di quello dello Stato, rafforzato da una cultura padronale che razziava tutto, la capacità di visione, le vite, l’ambiente. Tonnellate di rifiuti tossici e pericolosi bruciati ogni giorno, abusivamente, o tombati negli inghiottitoi naturali, le vore, o nelle cave di tufo abbandonate, o sotto ogni strada in costruzione (la strada statale 275, che da Maglie in provincia di Lecce porta a Leuca, ne è un esempio).
I rifiuti sparivano per sempre, ma cominciavano ad apparire le prime forme di malformazioni congenite sui bambini e forme di carcinomi aggressive cominciavano a mietere vittime, soprattutto tra i più giovani (si legga lo studio dell’ospedale Perrino di Brindisi con il Cnr di Lecce, pubblicato nel 2013, sui bambini nati a Brindisi dal 2001 al 2010; si leggano i dati della Lega tumori, sulle morti per tumore nel Salento; i dati ARPA degli ultimi 20 anni sull’inquinamento ambientale nel basso Salento).
Sparirono i contadini e le contadine, gli artigiani e le artigiane, e la loro arte. Arte nel far fiorire le pietre, arte nelle loro mani, quella di piegare qualunque materiale alla loro volontà creativa: cancellate per sempre.
Erano stati, questi, alcuni dei segni del fatto che il canale di comunicazione tra sé e il senso del sacro che è in sé, era attivo. Le mani nella terra, il contatto con la natura, l’arte, prima ancora che la Storia avesse inizio, erano un modo per l’uomo di interrogarsi su se stesso, sul suo futuro, sulle sue origini. Erano una tecnica di contemplazione di quell’Assoluto che è fuori e dentro di sé, e questa contemplazione lo connetteva agli altri, alla comunità, e connetteva la comunità e se stesso come parte del tutto. In quella contemplazione, che era feconda e attiva, non estatica e passiva, era una contemplazione facendi, l’uomo trovava le risposte e si proiettava nel dopo, nel futuro suo e degli altri, di sé in relazione alla comunità di appartenenza, nell’aldilà da venire. Era un uomo progettuale. Era un uomo che sentiva l’appartenenza ad una comunità. Il genius loci era in sé e lui/lei, erano il genius loci.
Pensate ora agli abitanti di un intero territorio, che va dalla Finis terrae fino alle porte di Brindisi, che per scelta o per necessità hanno interrotto questo dialogo. Terra di emigrazione, il Salento, oggi come ieri: in passato per fame, oggi per l’inconsistenza di un tessuto economico e sociale e di una classe politica (fatte salve le poche perle) che o non ha le competenze necessarie o non ha la pulizia morale per rispondere alle aspettative e alle aspirazioni delle giovani generazioni, sempre più scolarizzate e specializzate. Buchi neri di competenze ed etica, colmati da una diffusa collusione con la crescente criminalità organizzata di stampo mafioso, fatta welfare, fatta sistema, fatta economia, fatta società, fatta politica, fatta classe dirigente. Una mafia nata proprio per l’assenza di quel senso di appartenenza ad una comunità, ad uno Stato. Nata per la latitanza dello Stato. E oggi, che lo Stato continua ad essere assente ma la sacra corona unita sempre più presente, oggi, che i ragazzi e le ragazze vogliono respirare aria pulita e non la puzza di marcio di una terra che divora se stessa, vanno via.
Quella pepita d’oro, abbandonata, è ricoperta dalla patina nera dell’oblìo. Nessuno spolvera più le pietre. Nessuno le fa fiorire. Pochissimi, ancora oggi, hanno la capacità di contemplare le loro stesse mani muoversi sulle strade battute dalla memoria di gesti plurisecolari. Quei gesti, plurisecolari, come gli ulivi, e con gli ulivi, lasciati bruciare.
Il Salento è diventato terra del mare mordi e fuggi, del turismo che non crea, se non in pochi casi di scuola, indotto per artigianato ed enogastronomia.
E’ il settore in cui da qualche anno investe maggiormente la SCU.
Quest’anno, i turisti che già affollano le spiagge comprando un ombrellone e due lettini in prima fila per 80 euro (perché? a fronte di quale servizio? è solo cannibalismo del bene comune) troveranno, al di qua del mare, paesini sempre più spopolati e campagne carbonizzate.
La cattiva politica agraria nazionale ed europea hanno dato il colpo di grazia.
Hanno agito da colonizzatori, anche loro. I contributi europei degli ultimi 20 anni sono stati dati ai proprietari degli ulivi non in base alla produzione ma in base al possesso.
La logica è stata quella della riserva indiana: sei lì e per il solo fatto di esserci, ti diamo dei soldi.
La logica per la verità, era anche quella della manutenzione: sei lì e a te affidiamo il compito di curare il “giardino”. Ogni piccolo proprietario di uliveti è stato pagato per 20 anni dall’Europa come se fosse il guardiano del faro: stare, vivere lì, manutenere, spolverare le pietre, farle fiorire, per sé e per gli altri. È questo il concetto di paesaggio come bene collettivo che ha un’utilità sociale: un concetto che vien fuori incrociando l’articolo 9 della Costituzione con gli articoli 41 e 42. L’ambiente come bene collettivo.
Ma per quell’anarchia individualistica tipica delle nostre genti, e a causa delle braccia sempre più stanche e vecchie, mentre i figli guardavano alle fabbriche e i figli dei figli andavano all’estero, i proprietari degli uliveti hanno abbandonato il faro.
Negli anni Cinquanta salivano sugli ulivi per presidiare le terre e sfuggire ai padroni e ai loro lacché, ora sono scesi giù dagli alberi, hanno preso quello che c’era da prendere, soldi e olive, hanno spruzzato Round up per seccare l’erba, perché è più semplice, costa poco, costa meno di una giornata di sudore e dolori di ossa. Hanno smesso di potare, hanno smesso di fare la slupatura (la tecnica di pulitura del secco interno ai tronchi), hanno smesso di uccidere i rodilegno ad uno ad uno infilando il fil di ferro nelle gallerie scavate nei tronchi dal parassita.
I funghi xilematici che hanno attaccato gli alberi in stato d’abbandono e la xylella hanno fatto il resto.
Il Salento è stato dichiarato terra infetta con delibera di giunta della Regione Puglia nel 2013. Erano passati appena 15 giorni da quando il batterio era stato isolato e già la giunta guidata da Nichi Vendola buttava giù la zavorra: quel provvedimento dava la stura a tutta una serie di decisioni (delibere e determine) che avrebbero autorizzato la distruzione di 11 milioni di ulivi, di cui la maggior parte secolari.
È stato privilegiato l’espianto e il reimpianto di nuove specie o di specie resistenti ma bisognose di acqua e fitofarmaci (attenzione: resistenti nell’immediato, perché ancora non sappiamo come reagiranno nel lungo periodo) e troppo poco è stato investito nelle cure e nella ricerca.
I finanziamenti della Regione Puglia poi, hanno privilegiato le aziende agricole e le partite iva, non i piccoli proprietari di piccoli uliveti, che rappresentano la maggioranza, con un’estensione media di 1,2 ettari a famiglia. L’inchiesta della Procura di Lecce è stata ostacolata da omertà e dal diniego all’accesso ai documenti posto dalla IAMB (Istituto agronomico mediterraneo di Bari), protetto dall’immunità diplomatica.
Ma da quell’inchiesta, archiviata per l’impossibilità di portarla avanti, sono venute fuori tutte le gravissime responsabilità politiche, istituzionali e di alcuni centri di ricerca, che da una parte spingevano per la strategia dello sradicamento a tutti i costi, dall’altra registravano i diritti per le nuove varietà resistenti (nel breve) alla xylella. Sono venuti fuori tutti i fatti già denunciati nel mio libro e documentario Xylella report. Uccidete quella fortesta. Attacco agli ulivi secolari del Salento (Il Tacco d’Italia, 2015), che in tanti, da più parti hanno cercato di oscurare, senza riuscirci, preferendo la strada della denigrazione personale verso la giornalista e del fango.
La Regione Puglia di Nichi Vendola prima e di Michele Emiliano poi, è sottostata alle richieste delle associazioni di categoria che spingevano per un’agricoltura intensiva e industriale, e ha affrontato il problema della xylella fastidiosa con un’impostazione rapace da colonizzatrice: l’ultimo atto è quello dell’approvazione della legge 52/2019 ( “Disposizioni per la ricostituzione dell’attività agricola nelle aree colpite da Xylella”), con cui si disponeva che si potessero riconvertire gli uliveti estirpati o bruciati, senza dover sottostare ai nulla osta paesaggistici della Sovrintendenza, obbligatori per legge.
Che fosse sbagliato quest’approccio l’ha sancito la recente sentenza della Corte costituzionale (sentenza n.74 del 2021), che ha dichiarato costituzionalmente illegittime quelle disposizioni legislative – in particolare l’articolo 26, che permetteva, per la ricostituzione dell’attività agricola nelle aree colpite da Xylella fastidiosa, l’esonero dalla richiesta dell’autorizzazione paesaggistica e l’attività di impianto di qualsiasi essenza arborea in deroga ai vincoli paesaggistico colturali: questa disposizione, dice la Corte Costituzionale, vìola l’articolo 117, secondo comma, lettera s della Carta, che affida alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
L’ambiente e la sua tutela, non si può piegare a interessi di parte, è bene comune, patrimonio collettivo, ed è per questo che se gli industriali agricoli vogliono piantare altro, dopo aver sradicato gli ulivi, potranno farlo ma rispettando il paesaggio, cioè piantando colture che rispecchino la “cultura” del territorio.
Non avocado e mango, per intenderci, come invece è stato fatto finora, grazie ad una legge regionale che ha provato ad allargare le maglie della Costituzione. Anche se molti ettari di frutta esotica sono stati già impiantati, ora non si potrà più: quelli più attenti (o scaltri), come per esempio l’imprenditore Uzi Cairo, che ha già impianto 80mila piante di avocado, avranno, dalla bocciatura della Corte Costituzionale, doppio vantaggio: rimarranno gli unici sul mercato e la concorrenza sarà tagliata fuori.
Come sono stati tagliati fuori da ogni incentivo (tranne quelli della PAC) i piccoli proprietari di uliveti secolari, ereditati di famiglia in famiglia.
I loro ulivi, dormienti (non secchi, lo testimoniano i numerosi polloni alle loro basi), abbandonati in mezzo alla steppa cresciuta sulla terra non arata, prendono fuoco facilmente e il fuoco si propaga, attacca anche le proprietà curate e abitate.
Che fare di una terra carbonizzata che vale meno di niente?
Si cede al prezzo più basso e al primo che lo offre.
L’anno prossimo saranno passati sette anni dall’approvazione della legge regionale (la n.41 del 2014, poi modificata nel 2015) che consente di edificare laddove siano stati espiantati ulivi a causa della xylella.
Su “Xylella report”, era il 2015, avevamo scovato il caso di una discoteca, in agro di Taviano, che espiantando gli ulivi con la scusa della xylella aveva chiesto e ottenuto di edificare in zona agricola in deroga col piano regolatore. Serviva l’approvazione del consiglio comunale, che approvò all’unanimità, giustificando la scelta con l’aumento dei posti di lavoro.
Invece di stabilire in sette anni il divieto di edificazione negli ex uliveti disseccati – non solo dalla xylella, ma dai funghi e dall’incuria, oltre che dal terreno ormai desertico e dalle acque saline e inquinate – avrebbero dovuto aumentare l’arco temporale: avrebbero dovuto prevedere 20 anni di divieto ad edificare, come per gli incendi.
Invece fra poco chi ha soldi potrà edificare.
Chi ha soldi, potrà accaparrarsi le terre.
Chi è che ha così tanti capitali a disposizione, e chi è che ha la visione per investire in maniera estensiva sulle terre bruciate?
Il ratto delle terre, come in tanti Sud del mondo, è in atto.
Ripulire denaro, sarà facile e immediato.
Torna il latifondo, tornano i padroni e i colonizzatori.
Ma sono mai andati via? O si passerà banalmente, nell’atroce banalità del male, da un colonizzatore ad un altro?
I padroni latifondisti fino agli anni Cinquanta, lo Stato-industriale, gli imprenditori-padroni degli anni Sessanta, la sacra corona unita.
È alla Scu, l’ultimo della catena dei colonizzatori, che questa politica suicida e cannibale sta ora consegnando il Salento?
Tutte le scelte politiche della Regione Puglia finora, hanno predisposto il piatto.
Dove, come nella migliore tradizione delle colonizzazioni, saranno in pochi a mangiare e in tanti a guardare. Oppure, ad andare via.